La cultura…e i volti

In tempi in cui si discute tanto di riforme degli studi, di formazione o, addirittura, di “emergenza educativa”, forse dovrebbe essere prioritario non accontentarsi di cercare soluzioni tecniche od operative, non accontentarsi di essere solo “funzionari” del sapere, senza andare alla radice dei problemi. In tutte la questioni relative alla formazione, alla educazione, alla conoscenza, alla cultura, sono sempre in gioco domande più “radicali”, alle quali, sembra, non siamo più capaci di rispondere. Che sia anche questa una espressione dell’”analfabetismo di ritorno”, che pare tipico, anche, degli intellettuali e di chi opera nel campo dei saperi e della cultura, oggi?

Non sarebbe il caso allora di intendersi – prima di affrontare altre questioni – su ciò che significa, per noi, sapere e cultura, oggi? Anzi, prima ancora di discutere dell’idea di cultura o di sapere, non sarebbe il caso di interrogarsi su quale atteggiamento, quale “sguardo”, quale “stile”, sono presupposti da una autentica formazione  e crescita culturale? Prima, si è detto “oggi”. In effetti, in questo caso, la prospettiva dell’oggi è decisiva, ai fini di una risposta adeguata. Decisiva, perché siamo nell’epoca della globalizzazione, dei possibili – o invocati – conflitti di civiltà, delle tentazioni integraliste e fondamentaliste che investono istituzioni, organizzazioni, chiese, movimenti, ma anche saperi, educazione, politiche, informazione e cultura, in genere.

E allora, proprio in tempi come questi, occorrerebbe imparare, ed insegnare, prima di tutto, a separare, il più possibile, l’idea di sapere e di cultura dalla logica e dal linguaggio del potere e dei poteri. R. Barthes – uno dei grandi Maestri, di cui si avverte oggi la mancanza – scriveva nella sua Lezione (Einaudi): “Io chiamo discorso di potere ogni discorso che genera la colpa e di conseguenza la colpevolezza di colui che lo riceve”. In altre parole, esistono forme e atteggiamenti culturali che tendono a dominare l’altro, costringendolo a negare se stesso, a svendersi, a “suicidarsi”! Si tratta di quel modo di fare cultura, e di iniziare al sapere, che uccide i saperi deboli e le culture altre, che sacrifica la complessità all’idolatria del pensiero unico. È un modo di fare cultura che genera “servi”: non soltanto nel senso che, oggi, sembrano sempre più numerosi tipi di intellettuali che preferiscono stare sul registro paga dei potenti, quel tipo di intellettuali che, come scriveva W. Lepenies alcuni anni fa, “non fluttuano più nel regno della libertà, ma stanno con i piedi ben saldi per terra e si mettono in fila”; ma anche nel senso che si tratta di uno stile culturale che, invece di liberare – come dovrebbe, ogni vero sapere! – produce dipendenza e schiavitù! È l’atteggiamento – che viene spacciato per difesa della cultura e amore della verità – che ha paura della crescita e dell’autonomia, ha paura del moltiplicarsi delle prospettive: una cultura che mira a “tagliare le ali” agli altri!

E invece, lo stile culturale, propedeutico a una crescita e a una educazione, oggi, veramente umane, uno stile che può consentire di evitare il linguaggio e le categorie, dominanti, della delimitazione e dello sconfinamento, riducendo la sua dimensione di potere, dovrebbe essere quello capace di rinunciare a determinare direttamente ciò che è “altro” o estraneo, preferendo piuttosto considerare l’”altro da sé” come quello a cui si risponde, o quello a cui si deve inevitabilmente rispondere! In questa ottica ciò che è “altro” verrebbe considerato, a seconda delle sfumature, un’esortazione, uno stimolo, un richiamo, un’istanza, un “volto” che interroga.

Qui, allora, fare cultura o sapere, introdurre al sapere e alla cultura, sarebbe imparare, o educare, a “scoprire i volti” e a farsi interpellare da essi.

Dovunque – nello spazio e nel tempo – si possano incontrare quei volti!…Non sarebbe bello?

Amo la storia delle idee, la filosofia e la musica. Mi interessano i linguaggi, la comunicazione, i libri.

2 commenti

  • Anonimo

    Maestri di volo“Tagliare le ali” mi ha riportato alla mente il finale di un racconto di Louis Sepulveda, “La gabbianella e il gatto”. In cima al campanile di una chiesa di Amburgo, un poeta insegna a volare ad una gabbianella che, allevata dai gatti, nonostante il desiderio, non riesce a farlo. Il ricordo di questa immagine lieta è stato risvegliato da quella intensamente dolorosa del “tagliare le ali”. Sono andata in cerca del libro. L' ho aperto alle ultime pagine. Vedo in cima al campanile il poeta,la gabbianella Fortunata e il gatto Zorba che l'ha covata,allevata e protetta come una mamma. Leggo: “Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L'umano prese la gabbiana tra le mani.“No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell'umano.“Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba.“Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l'umano.“Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba.La gabbianella spiegò le ali…Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa.“Volo! Zorba! So volare!” strideva euforicamente dal vasto cielo grigio.L'umano accarezzò il dorso del gatto.“Bene gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.”Prima di concludere apro il libro che mi accingo a leggere (Marshall B. Rosenberg, Parlare pace, quello che dici può cambiare il mondo). Anche i libri sono volti da scoprire che ci interrogano e ci rispondono. Il primo capitolo si apre con una citazione di un autore a me ignoto, Harold Whitman:“non chiedetevi di cosa il mondo ha bisogno, chiedetevi invece che cosa vi rende vivi, poi mettetelo in pratica perché ciò di cui il mondo ha bisogno sono persone vive”

  • Anonimo

    Un vero intellettuale ha sempre avuto nel suo DNA la voglia di sfidare l'ignoto, la spiritualità della tenda che lo portava a non farsi stanziale della cultura ma nomade della ricerca nei territori dell'”altro”, i soli che potevano consentirgli di uscire dall'orizzonte di un'animalità (anche, eventualmente, “laureta”) prigioniera in un orizzonte geneticamente e culturalmente chiuso. Se non era così, non si trattava di intellettuale ma di erudito. Dobbiamo recuperare il fascino di questo modello di nomadismo culturale e dobbiamo proporlo alle nuove generazioni, insistendo sul convincimento che la cultura vera non è l'accumulo delle conoscenze ma la capacità di utilizzare le conoscenze per mettere in discussione e scompigliare il casello di carte nel quale esse sono state accademicamente incastonate. L'avversione di Platone alla scrittura, al di là della sua vena aristocratica, potrebbe trovare una giustificazione condivisibile nel rifiuto di una cultura pietrificata in una rielaborazione prefissata, che ti lascia solo la possibilità di ripeterla, e nella proposta alternativa di una costruzione del sapere come ricerca permanente attraverso il dialogo tra orizzonti culturali diversi o opposti.

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