Il segno dell’umano
E se scomparissero il linguaggio e la conversazione?
Riusciamo ad immaginare un mondo umano caratterizzato dall’assenza della parola? Sarebbe ancora umano? Riusciamo ad immaginare una società umana in cui il linguaggio si è ridotto solo a una serie di grugniti? Anche se, a dire il vero, qui e là, si notano già alcuni segnali di tale trasformazione. Infatti, non siamo quasi al grugnito ogni volta che la parola, sia pure per difendere cause giuste, viene usata come violenta invettiva, come strumento di aggressione, come insulto, come disprezzo, come dileggio?
Sempre più spesso, molti sembrano ignari del fatto che la parola umana è, allo stesso tempo, sacra e fragile come un neonato, il quale va toccato e trattato sempre con assoluta cautela, quasi con timore, (“timore e tremore”) perché esporlo a un rischio anche lieve potrebbe comportare un pericolo mortale.
Domande e riflessioni, queste, nate dalla lettura del romanzo La strada di Cormac McCarthy. Credo si possa dire che questo romanzo sia interpretabile anche come una forma di contemplazione-venerazione della parola e della conversazione umana. A leggerlo, sembra un romanzo per tempi bui, anche se pubblicato nel 2006, quindi prima che cominciasse questo nostro tempo di crisi profonda e di transizione continua e interminabile che ci sovrasta, e ci rende disorientati, ansiosi e angosciati. Quello del narratore sembra uno sguardo, “laico” con evidenti allusioni anche religiose, su un mondo sconvolto e su una condizione umana desolata. Uno sguardo senza certezze e tuttavia senza aprioristiche chiusure dal momento che “ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero”: sono le parole con le quali si chiude il romanzo.
Tutto comincia con la scena di un mondo sconquassato e frantumato da una catastrofe planetaria oscura. Un mondo che sembra non potersi “rimettere a posto”. Tutto è solo caos, in cui si muovono disorientati, erranti, impauriti e famelici gli esseri umani, tutti senza nome. Intenti solo a sopravvivere. È un mondo senza colori, “arido, muto, senza Dio”. Un mondo dominato dalla paura, e dal quale anche gli uccelli sono fuggiti.
Il romanzo segue l’errare incerto di un padre e di suo figlio, anzi “l’uomo” e “il bambino”, “l’uno il mondo intero dell’altro”, in cerca di una terra sicura, meno buia e fredda, in cerca del mare e del caldo sole del Sud, in cerca di eventuali, sopravvissuti, gruppi umani “buoni” e pacifici.
Cosa fare? Cosa si può salvare quando non c’è niente da “riaggiustare”? quando non è più possibile nessun ritorno al mondo di prima?
Quando non c’è più niente, che non sia macerie, cenere e desolazione, quando non appare nessuna coordinata per definire un orizzonte possibile di significato e di futuro, quando si erra quasi al buio, in compagnia solo di una “disperata speranza”, cosa rimane?
Se tutto è solo ricordo, potrebbe meritare di essere salvata almeno la parola, la possibilità della trasmissione della parola, la possibilità della “conversazione”.
La parola sembra l’unica salvezza – almeno per un poco o per sempre forse. Il romanzo lo fa intuire nella scena finale dove il narratore scrive che, in quel mondo in cui anche Dio sembrava assente, il bambino ci “provava a parlare con Dio” e tuttavia per lui la “cosa migliore era parlare con il padre”. Lo stesso messaggio si può dedurre anche dalla scena in cui il padre ha appena ucciso un uomo che voleva sottrargli il figlio. “Quello era stato il primo essere umano, a parte il bambino, con cui aveva parlato nell’arco di oltre un anno. Un fratello finalmente”, annota il narratore registrando i pensieri del padre. Una conversazione con un “fratello”, finalmente, anche se quello aveva usato fino all’ultima parola solo per la menzogna.
Qui è evidente che per l’autore, la parola è ciò che merita di essere salvato ad ogni costo, nella sua oralità, nella sua capacità di essere trasmessa, di essere con-versata, anche quando è spogliata e nuda fino all’estremo.
Questo mi sembra il tema intricante del romanzo. Non è un caso che, nel racconto, le prime parole riportate dallo scrittore in discorso diretto, siano quelle pronunciate dal padre (“dall’uomo”) che, avendo davanti il bambino, dice: “se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato”. Evidente allusione e interessante interpretazione da parte di Cormac McCarthy di un aspetto centrale della tradizione biblico-cristiana [“e il Verbo era Dio…e il Verbo si fece carne e dimorò fra noi (Gv. 1,1; 1,14)], quasi a dire che è nella parola dell’uomo, nella “con-versazione” con l’altro, che si rivela qualche presenza di ciò che gli esseri umani hanno sempre inteso con la parola “Dio”.
In realtà, nel proseguire del racconto, agli occhi dell’uomo il bambino diventa sempre più “il verbo”, la parola, perciò la speranza e “il fuoco”che non si spegne. In un mondo dove tutto è morte e silenzio, in un mondo vuoto di garanzie, la presenza del figlio e della sua parola è la sola cosa in grado di annunciare una vita nuova. Per “l’uomo” è l’ unica garanzia di senso.
Se il bambino resta in vita, se non perde la testa di fronte al male, se continua a fidarsi, se continua a vedere ciò che l’uomo non riesce a vede, se conserva la parola, allora vuol dire che un Dio continua a parlare, anche in quel contesto desolato.
Nel romanzo il padre è tratto fuori dal silenzio e dalla morte, dal bambino. (Il narratore ci fa sapere che il padre è vivo a causa del bambino, perché quando, dopo la catastrofe, lui e la moglie avevano deciso di mettere fine alla vita loro e a quella del figlio, dovettero rinunciare al loro progetto perché avendo solo due proiettili avrebbero dovuto lasciare il figlio in vita da solo).
Come nota il narratore, il bambino è tutto “ciò che c’era tra lui e la morte”, anzi per lui e per il resto del mondo il bambino, quel bambino, è tutto ciò che li separa dalla barbarie, da uno stato selvaggio.
Ma il padre, o l’uomo come lo chiama il narratore, viene anche destabilizzato dalle domande e dalle parole del bambino: domande e parole a volte incomprensibili come quando il bambino scrive sulla sabbia. Domande e parole indecifrabili perché scritte sulla sabbia e per questo precarie e sfuggenti. Parole a volte impensabili, nel contesto in cui i due si muovono: “Aiutarlo, papà. Voglio solo aiutarlo…Non tocca a te preoccuparti di tutto….Sì, invece, disse. Tocca a me”.
Tuttavia è essenziale che la conversazione continui. La parola è la vita. “Devi ricominciare a parlarmi, gli disse”. “Potresti raccontarmi una storia che parla di te”. “Dentro di te hai delle storie che io non conosco”. Dice l’uomo al bambino. Dice un umano all’altro umano!
La conversazione tiene in vita, è vita. La vita è conversazione: la conversazione anche quando è insignificante permette la vita, chiama alla vita.
Forse è vero! Nel miracolo della parola c’è qualche traccia del mistero dell’universo. Nel miracolo della parola si nasconde il sogno degli umani. Forse il miracolo e il mistero della parola sono la vera cifra dell’umano.
Quando il mondo appare distrutto e devastato, sembra dire Cormac McCarthy, resta solo la forza vivificante della parola.
La parola, da custodire!