Tempo di tradimenti. La cultura
Di fronte alla storia, la cultura svela un paradosso inquietante: nata per liberare l’uomo dalla necessità naturale, finisce troppo spesso per servire il potere, trasformandosi in una sofisticata arma di oppressione.
Cosa ha a che fare la cultura con questo tempo di incredibili e vergognosi tradimenti?
Che cosa ha a che fare la cultura, tradizionalmente intesa come veicolo di emancipazione e crescita, con il concetto di tradimento? A prima vista, nulla. Eppure, se osserviamo le dinamiche della storia e del nostro presente digitale, emerge una verità scomoda: la cultura possiede un “lato oscuro”. Come suggeriva Julia Kristeva, essa nasce dal bisogno di credere e di elevarsi, ma può facilmente assumere i tratti della sopraffazione quando entra in un rapporto perverso con il potere.
La “sindrome potere-sapere”, ovvero la prassi della cultura intesa come dominio, è una malattia tipica della modernità che oggi trova terreno fertile nel cyberspazio. È il fascino eterno dei tiranni che seduce chi la cultura la custodisce, la comunica e la riproduce. Possiamo individuare sette “volti” di questo tradimento, sette modalità attraverso cui il sapere rinnega se stesso.
Il servilismo: la cultura in fila per il rancio
Il primo tradimento è il più antico: la sottomissione.
Cosa resta dell’intellettuale se si vende per “un piatto di lenticchie” o per la “zuppa del faraone”? Dalla Roma imperiale ai totalitarismi del Novecento, fino ai regimi odierni (Cina, Russia, Iran), la storia è costellata di sottomissioni volontarie. Ma il fenomeno non riguarda solo le dittature. Come notava Wolf Lepenies, anche nelle democrazie gli intellettuali sembrano aver perso la voglia di “fluttuare nel regno della libertà”, preferendo la sicurezza di una terra ferma e l’allineamento al potere costituito. È un’abdicazione morale che sta alla base di molte crisi politiche attuali.
Il complesso del macchinista
Se non è serva, a volte la cultura vuole farsi padrona. È la tentazione del potere pubblico. L’intellettuale, che dovrebbe essere un osservatore critico (un “viaggiatore”), spesso cede al desiderio di guidare il treno, di fare il “macchinista”. Julien Benda lo chiamava “il tradimento dei chierici”. Quando l’uomo di cultura entra nella gestione diretta della cosa pubblica, perde quella distanza necessaria all’analisi. Lo storico François Furet avvertiva che il fascino della forza ha corrotto il libero pensiero del XX secolo. L’idea platonica del “filosofo-guardiano” si rivela spesso una trappola: assumere il potere significa smettere di comprenderlo.
La logica del clan
Oggi assistiamo a una degenerazione tribale della cultura. Il valore delle idee viene soppiantato dalla “logica dell’appartenenza”. Non conta cosa dici, ma di chi sei amico, a quale chiesa, partito, accademia o network appartieni. È la morte della critica: la cultura diventa “complice”, manipola i dati e deforma la realtà pur di proteggere l’immagine del proprio gruppo. Quando l’identità di fazione supera la ricerca della verità, la cultura si acceca.
L’ambizione del legislatore universale
Zygmunt Bauman ha descritto perfettamente la strategia dell’intellettuale moderno: ergersi a “legislatore”. A partire da Bacone, il sapere ha preteso di definire arbitrariamente ciò che ha senso e ciò che non lo ha, tracciando il confine tra reale e irreale. È una forma di potere che si manifesta come “extraterritorialità”: gli intellettuali credono di possedere verità vincolanti per tutti, trasformando la cultura in un tribunale che emette sentenze sulla vita degli altri.
La gabbia della classificazione
Strettamente legato al punto precedente è l’ossessione per le categorie. Una cultura che classifica tutto diventa incapace di cogliere l’irriducibilità della vita. I desideri, le motivazioni profonde, l’individualità vengono sacrificati sull’altare di schemi rigidi. Quando il sapere non riesce più a leggere le sfumature dell’animo umano perché non rientrano nelle sue griglie teoriche, diventa una cultura “contro la vita”, miope e angusta.
Il delirio di onnipotenza (Sicut Deus)
C’è un peccato originale nella cultura moderna: la pretesa di sostituirsi alla Verità, di occupare tutto lo spazio del reale. È il primato del significante che diventa un filtro eccessivo. La cultura, volendo mediare tutto, finisce per creare un’elefantiasi di se stessa che oscura la realtà invece di rivelarla. In questo delirio di onnipotenza (sicut Deus, come Dio), si produce paradossalmente l’eclissi della verità che si pretendeva di servire.
Il linguaggio come arma
Infine, il tradimento si nasconde nelle parole stesse. Spesso il linguaggio culturale è intriso di metafore territoriali e belliche: si parla di “fondamento”, “edificio”, “dominio”, “campo”, “regione”. Non sono termini neutri. Come intuiva Roland Barthes, la lingua è una legislazione e ogni discorso che genera colpa o sudditanza è un discorso di potere. Esistono forme di comunicazione colta che mirano a dominare l’interlocutore, a costringerlo al suicidio intellettuale. Invece di rendere liberi, questa cultura crea dipendenza, schiavitù e massacra i saperi più deboli. È una cultura che, invece di dare le ali, le taglia.
In conclusione, riconoscere questi tradimenti è il primo passo per restituire alla cultura il suo ruolo autentico: non strumento di governo o di esclusione, ma spazio di libertà e di autonomia.
