La vita è una ginnastica del desiderio
Sembra così semplice e ovvio oggi il linguaggio del desiderio! Eppure l’esperienza lo smentisce continuamente, rivelandone le trappole, i vuoti, l’ambivalenza, gli inganni. La semplificazione attuale degli oggetti del desiderio e il marketing dell’immaginario hanno spostato il “desiderare” nel campo delle “procedure”, in vista di “obiettivi” facilmente individuabili.
In realtà, tutta la scena del desiderare ha a che fare piuttosto con la sfera dell’incertezza. “Desiderio”, infatti, si riferisce a un’assenza. Spesso a una perdita. E, comunque, a una mancanza. Perciò, anche, a un’attesa. È stato detto che la carenza di desideri è povertà, ma, a voler essere realistici, è proprio il desiderio a rivelare l’essenziale mendicità della condizione umana.
Per indagare la natura del desiderio e la sua relazione con l’esistenza umana, sarebbe più utile, quindi, non pensare il desiderio, prevalentemente, come un principio, o una energia, o un volere che spinge all’azione. Tuttavia, è proprio questa, la “lettura” che ci viene più naturale, oggi, nell’era dello scambio, del primato del mercato, del possesso, del consumo. Occorrerebbe invece lasciarsi guidare da altre possibili immagini, emergenti dal seno del linguaggio stesso. Per esempio, da quella etimologia del termine “de-siderare“, (lat.: “de” privativo, e “sideribus”, da “sidera” =stelle), che non parla tanto di “smettere di guardare le stelle per agire“, secondo la lettura di alcuni interpreti, ma piuttosto intende il “de-siderare”, come la condizione di chi si trova nell’impossibilità di osservare e scrutare le stelle (con-siderare), scomparse in un cielo coperto o annebbiato. E allora il “desiderare” avrebbe il significato di accettare, nonostante tutto, di rimanere, intanto, mendicanti sotto quel cielo, nell’incertezza e nell’attesache quel cielo notturno e quelle stelle, e questo tutto che ci circonda, si rivelino finalmente, a noi, come donatoridi orientamento, di incontro, di sollievo e di senso. Se è così, si tratterebbe di vivere il nostro “desiderare” come accettazione grata della nostra condizione di nostalgia, di attesa e di ricerca ininterrotta. “Il desiderio” come carattere essenzialedell’esistenza umana. L’individuo umano come “essere desiderante”, proprio a partire dal suo “limite” fondamentale, dalla sua strutturale “mancanza”. Anche i singoli “desideri” emergono e acquistano significato nel contesto di questo “desiderio” di fondo, di questo “desiderare” che ci caratterizza e con il quale l’essere umano tenta di trasformare la mancanza, l’assenza, il rischio dell’abisso (la morte), il “vuoto” in un “pieno” di essere.
Forse il desiderare umano e la vita delll’uomo non sono altro, in sostanza, che questo. Questo disporsi all’accoglienza di ciò che, dall’ “altro”, dal cosmo, dai viventi e dagli altri umani, viene continuamente incontro alla nostra nostalgia, al nostro domandare spesso inespresso, e alla nostra attesa di essere, essere veramente.
Perciò, il “desiderare” umano, si manifesta, sì, nei singoli, quotidiani, desideri, ma non può essere ridotto alle strategie di conquista, alla brama di possesso, alla voglia di “afferrare” adesso, o all’anelito a “consumare”. E’ vero, il desiderio, nell’esperienza di tanti, consiste ne “i desideri”, cioè il desiderio di qualcosa o di qualcuno, tuttavia è, sempre, inevitabilmente e nello stesso tempo, desiderio di qualcos’altro, rispetto all’oggetto desiderato (M. Marzano, La fine del desiderio, Mondadori). Non è forse vero anche questo? E allora, viene da pensare che non è tanto paradossale la constatazione secondo cui ci sono vite realizzate nonostante desideri irrealizzati, e vite irrealizzate nonostante i desideri realizzati (D. Bonhoeffer).
E se “il desiderio“, essenzialmente, non fosse altro che il godere della condizione desiderante? Il prendere coscienza e godere della condizione di “mancanza” costitutivadi ogni vivente, perché essa è ciò che ci “pro-ietta“, ci “pro-getta“, ci rende creativi e, per questo, “vivi“? Avete mai pensato a quale sarebbe la vita umana, senza questo stato di mancanza?
E vero che, oggi, nel nostro contesto culturale, nella società dello scambio generalizzato, dove ci siamo autoconvinti che tutto si possa avere o comprare, sembriamo aver perso l’originaria attitudine umana ad accettare la condizione di “mancanza”. È vero che ci siamo convinti di avere, sempre, tutto a disposizione. Ci siamo “programmati”a pensare il mondo, le persone, le cose, finanche Dio, sempre nella nostra disponibilità. Ma se, come ha scritto Luisa Muraro, fosse vero invece che, “il desiderio [i desideri quotidiani] non ha l’ultima parola, nonè l’ultima parola, perché dentro di sé trasporta il suo oltre, come dice la sua stessa illimitatezza”? Se fosse vero che “la cosa importante non è il desiderio di qualcosa, ma il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio” (Manuela Fraire)?
E allora, “desiderare” sarebbe anche, nello stesso tempo, la capacità – e il piacere – di “aspettare”. “Aspettare“! Imparare ad aspettare. Una competenza, tipica dei viventi, che la velocità della vita attuale ci ha fatto smarrire. E che forse, ormai, solo i pochi contadini rimasti, addestrati a un rapporto più “intimo” con la natura, conservano ancora.
Ma anche qui, non si tratta solo di aspettare qualcosa o qualcuno in particolare, ma addestrarsi ad acquisire l’attitudine dell’ ”aspettare”! Saper aspettare, disarmati, e senza presunzione! Nello stesso modo in cui il “desiderare” non è solo bramare oggetti o persone particolari, non si identifica solo con “i desideri”, fugaci e vaghe epifanie de “il desiderio”; ma è “ginnasticadel desiderio“, alla ricerca e nell’attesa di un “incontro-avvento” dove “lo slancio verso la vita e la promessa di vita coincidono” (F. Cheng).
Ebbene, se la vita non fosse altro che allenarsia questo? A questa “apertura” illimitata e quasi assoluta? E se noi, umani – e i viventi tutti – non fossimo altro che questo?