SENSO E NON SENSO
Mi trovo spesso a riflettere, in questo periodo dell’anno, sul “senso” di ricorrenze come il Natale, sempre più superficiale fenomeno folkloristico senz’anima, non solo per coloro i quali escludono ogni considerazione per i valori religiosi, ma anche per molti di quelli che si definiscono religiosi o credenti.
Il fatto non pare molto normale, dal momento che, tutti, tra l’altro, contiamo i secoli, i nostri anni e i nostri giorni, a partire proprio dall’evento ricordato dal Natale. Quell’evento, quindi, sotto certi aspetti, ha contribuito a definire la nostra identità, individuale e collettiva. Dovremmo allora pensare che quello svuotamento di senso, a cui facevo riferimento, èil prodotto di una disgregazione della memoria storica? O, potremmo dire meglio, è l’effetto di una inabilità progressiva ad assumersi il compito umano di rispondere alle voci e alle domande lasciate aperte dall’incalcolabile numero di gente che ci ha preceduto, la cui eco continua a risuonare nel profondo di ognuno di noi, pur inascoltata? Il “lamento dei morti”, lo chiamava Jung. Sembra, infatti, che gli antichi egizi seppellissero i defunti con la bocca aperta, quasi a voler ricordare che essi continuano a parlare, e che le loro domande non smettono di interpellarci. Oggi, invece, facciamo di tutto per chiudergliela, e forse non solo per motivi estetici, ma perché ci fanno sentire più tranquilli, i morti che smettono di parlare e di interrogarci. Vi ricordate la figura del Grande Inquisitore di Dostojevski, che invita anche il Cristo a tornarsene lì da dove è venuto, e a non continuare a disturbare con le sue parole la tranquilla vita della gente? Siamo a questo punto? Insensibili al fatto che, nonostante tutto, siamo parte di qualcosa che ci ha preceduto?
Eppure la cultura umana, diceva Gadamer, non può perpetuare se stessa se non attraverso la memoria, anzi il grosso del lavoro “umano” consiste proprio nel risvegliare la memoria, nel ripetere e rinnovare ciò che ci pare “solo” passato, senon si vuole smarrire se stessi!
Ebbene, mentre vagavo tra questi pensieri, mi ha colpito un brano del pittore Wols (Wolfgang Schultze) che dice:
“non spiegate la musica/
non spiegate i sogni./
L’inafferrabile pervade tutto/
bisogna sapere che ogni cosa fa rima” (Wols, Aforismi, Bologna 1996).
Allora ho pensato: forse il senso profondo trasmesso dalla paradossale storia narrata dal Natale, una di quelle “voci” da accogliere e tenere vive, in questo nostro tempo che appare a molti senza capo né coda, consiste proprio nell’idea, illuminante al di làdelle differenze tra credenti e laici, secondo cui questo mondo è già pieno di significato.
Il punto è, come leggerlo, come rilevarne le tracce, ascoltarne le voci, scorgerne le immagini, lasciarsi sedurre dalle sue visioni e apparizioni.
Capita troppo spesso, infatti, che alcuni approcci ermeneutici “agiscano come se il mondo fosse impoverito e avesse bisogno che qualcuno gli conferisse significato…Forse dovremmo convincerci che siamo qui non tanto per capire tutto, ma per apprezzare quello che c’è” (J.Hillman).
Un commento
Anonimo
Caro Pino, mi hai insegnato tu – facendomi conoscere Metz – che la memoria ha senso solo se conserva una dimensione “sovversiva” che mi faccia sobbalzare di fronte alla tentazione di acquiescenza.