Il non detto nella crisi delle democrazie
Forse tutta la storia della democrazia è destinata a rimanere storia della sua sperimentazione e delle sue crisi. Tutto ciò, ha ragione Pierre Rosanvallon (Il Mulino 4/2020), nella cornice di una lunga storia di promesse non mantenute, una storia lunga di attese e di disincanto.
Tuttavia, non tutto è riducibile, come si suole ripetere, al fatto che i partiti si sono allontanati dalla società, o al fatto che i partiti di sinistra avrebbero abbandonato il popolo.
Ciò che è in gioco oggi, invece, è la leggibilità della società, e la capacità di raccontarla, da ogni punto di vista. Ci mancano le categorie, ci manca anche la cultura per elaborarle.
Una cultura che manca però anche ai tanti “esperti” di politica e alle “vestali” del giornalismo da scrivania, che presumono di conoscere la politica meglio dei politici. Come se poi la politica fosse davvero una “scienza” e non principalmente un’arte!
In realtà, oggi è in atto un vero e proprio divorzio – nella coscienza collettiva – tra il “rito” e il “mito”. Cioè, tra le “pratiche” e le “narrazioni” che una volta le accompagnavano; tra atteggiamenti, comportamenti e la capacità di raccontarne il senso e il significato.
Purtroppo, tutte le volte che i riti divorziano dai miti, essi perdono senso e le civiltà traballano.
Tutto questo è vero non solo per le pratiche culturali e cultuali di ogni genere, ma anche per “le pratiche”e i riti della politica. Erano molto ben consapevoli di ciò i nostri progenitori di ogni latitudine, fin dalle età arcaiche.
Un’importante testimonianza a tale proposito, è fornita da Geo Widengren, autorevole fenomenologo delle religioni e linguista, il quale, in un lavoro fondamentale (Fenomenologia della religione), descrive un momento decisivo nella vita di molte civiltà antiche. Si tratta della festa del capodanno che, egli scrive, fin dalle ere arcaiche era dedicata alla celebrazione della morte e della rinascita. Tale festa comportava un sacrificio rituale in due fasi: il sacrificio di riconciliazione e quello di espiazione.
Il sacrificio di riconciliazione consisteva in una pubblica e collettiva assunzione di responsabilità con riconoscimento dei “peccati” e degli errori: in esso non si faceva riferimento tanto ai peccati individuali ma ai peccati e agli errori pubblici e collettivi; si era cioè consapevoli che esisteva una precisa responsabilità collettiva, da cui, con il re in testa, tutta la comunità era tenuta ogni anno a “rialzarsi” formalmente, per essere perdonata, “rigenerata” e pronta per il cammino futuro.
La seconda fase era quella del sacrificio di espiazione. Quello del “capro espiatorio”. Qui in origine il re, il capo della comunità, si offriva come vittima vicaria e si lasciava simbolicamente sacrificare e umiliare pubblicamente, a beneficio della sua comunità. Per rappresentare in questo modo pubblicamente e ritualmente la morte e la rinascita della intera comunità, e garantirne il futuro.
Altro che primitivi e superati! Verrebbe anzi voglia di chiedersi quanti, degli attuali “flagellatori” e “giustizieri” di politici e governanti, sanno che non fanno altro che attualizzare, senza comprenderne il senso, un rito ancestrale pur dando ad esso vesti e motivazioni diverse ma non per questo più fondate.
Beh, è curioso che, di quell’antico rituale, sembra che abbiamo conservato solo la fase del sacrificio del capro espiatorio, dimenticando la prima fase: quella della collettiva assunzione di responsabilità e della “confessione” pubblica. Insomma abbiamo mantenuto solo la fase del rito più comoda – o divertente? – per ognuno di noi!
Però è il caso almeno di notare che il grado di consapevolezza sociale è stato, in epoche non moderne, e non democratiche, più acuto di quanto siamo soliti pensare.
In effetti, in democrazia, ogni critica dei governanti non dovrebbe essere sempre, nello stesso tempo, una auto–critica dei governati?
Come è che sembra così difficile per noi oggi capire che la nostra politica e la nostra democrazia hanno il loro tarlo non in superficie ma in profondità?
Perché è così difficile per tutti capire che la politica e la democrazia degenerano quando mancano di se stesse e delle proprie radici? E cioè, quando viene meno, non tanto nei governanti ma in tutta la comunità, ‘quell’elemento nel quale dovrebbe potersi esercitare non soltanto la razionalità del governare, ma quella, infinitamente più alta e più ampia, di un sentimento o addirittura di una passione dell’essere insieme’, come scrive Jean-Luc Nancy?
Come si fa a non capire che la nostra democrazia potrà ritrovarsi e ridefinirsi solo se i cittadini saranno in grado, tutti insieme, di assumere una dimensione che oltrepassa la stessa politica, e che Nancy chiama “etologia dell’essere-con”?
Insomma quando capiremo che i profondi mali della politica derivano dall’incapacità da parte di ognuno dei cittadini di assumere ciò che ogni individuo ha in comune con gli altri anche senza averlo scelto, ma per il fatto di appartenere alla stessa società, e cioè il suo “essere sociale”(M. Godelier)?
Il vero problema è che tutti oggi tendiamo a immaginare la politica e tutti i legami sociali solo come una questione di gusto e di scelta, facendo apparire le comunità come associazioni di volontariato dalle quali ci si può dimettere qualora richiedessero eccessiva abnegazione, piuttosto che come “comunità di destino” (Peter Mair)) con le quali o sopravvivere o affondare insieme!
Forse è tutto qui, il vero non detto nel fondo della crisi della politica e delle nostre democrazie!