Tornare a scuola di libertà
Come è possibile non accorgersi che la democrazia e il desiderio di libertà sembrano non trovare più un convinto seguito, oggi, imbrigliati come siamo da incredibili sofismi?
Forse non riusciamo più neppure a comprendere che la “libertà è la speranza consentita”(Jankelévitch). E che “in una vita libera c’è il permesso di sperare, il che è tutto. Perciò abbiamo bisogno di reimparare che senza libertà e quindi senza speranza non esiste identità umana.
È sempre difficile trovare popoli che non si lascino irretire dal fascino e dalle lusinghe delle dittture, come capita a troppi anche dalle nostre parti.
Tuttavia, esistono, anche oggi, popoli e comunità che non si rassegnano alla schiavitù, e per i quali i motivi della vita sono più importanti della vita stesa, come pensava il filosofo Jankélévitch.
Forse, ci conviene ascoltare la lezione che ci arriva in particolare da un popolo e da una comunità (il Tibet e i buddisti tibetani), che dal 1950 sono sotto il tallone di un regime totalitario come quello cinese.
In un ampio articolo, pubblicato su Foreign affairs. il 1 Settembre, 2025, Beijing’s Dangerous Game in Tibet, Tenzin Dorjce e Gyal Lo invitano a riflettere sulla testimonianza di un popolo e di una comunità per i quali la libertà è anima e identità.
Leggere questo approfondito articolo-saggio (di cui riporto qui qualche brano, in traduzione automatica) sarebbe per tutti una vera scuola di libertà, come lo è per me.
E, soprattutto, aiuterebbe forse a decifrare meglio le vicende e i complicati processi storici in atto, in questi nostri giorni.
“In definitiva, notano ancora Tenzin Dorjce e Gyal Lo, la più grande fonte di unità e coesione tra i tibetani è la lotta per la libertà, per liberare la loro patria dal dominio del PCC. I tibetani vedono il rifiuto di Pechino di consentire un successore liberamente scelto al Dalai Lama come un assalto al buddismo tibetano e una negazione del diritto all’autodeterminazione.
Nessuna politica ferisce la dignità tibetana più profondamente dei tentativi di cooptare il suo cuore spirituale e istituzionale. Più il governo cinese insiste nell’installare un Dalai Lama a Pechino, più è probabile che i tibetani si uniscano all’opposizione“.
Quello che, per i cinesi è solo una questione strategica; per i tibetani è questione esistenziale.
Per questo, il Dalai Lama ha scritto, nelle sue memorie, “data la mia età, comprensibilmente molti tibetani sono preoccupati per ciò che accadrà quando non ci sarò più. Sul fronte politico della nostra campagna per la libertà del popolo tibetano, ora abbiamo una popolazione sostanziale di tibetani al di fuori, nel mondo libero, quindi la nostra lotta andrà avanti, non importa cosa”.
È evidente che, in questo nostro tempo, l’autodeterminazione dei popoli, e la libertà personale e individuale sono sotto attacco, soprattutto ad opera di un network di regimi politici autoritari, autocratici e dittatoriali, che paiono aumentare di numero nel mondo.
Come ci ricorda Gérard Araud nell’articolo L’ère des empires et des prédateurs arrive et nous n’y sommes pas préparés, pubblicato su Le Point il 31/08/25 (da leggere credo in parallelo con quello, citato, su Foreign Affairs) “l’era degli imperi e dei predatori sta arrivando e noi non siamo preparati“.
È per noi una vera scuola quella dei buddisti tibetani, anche perché oggi. in tutte le forme di negazione o riduzione delle libertà personali o di violenza diretta o indiretta sulla vita e sui corpi degli individui, tendono ad insinuarsi motivazioni religiose o pseudo religiose.
Ecco perché pare importante e illuminante oggi riflettere sulla testimonianza del Buddismo tibetano e del popolo del Tibet.
“La convinzione di Pechino che la forza superi sempre la fede è il punto alla base delle sue strategie fallite per conquistare cuori e menti tibetani – scrivono Tenzin Dorjce e Gyal Lo. Senza una comprensione culturale profonda della relazione dei tibetani con il Dalai Lama e il suo posto centrale nel buddismo tibetano, l’unico strumento di Pechino è la coercizione. Quindi Pechino ha fatto affidamento su un sofisticato cocktail di politiche repressive per sopprimere potenziali dissensi in Tibet, tra cui collocare tre studenti tibetani su quattro in collegi in stile coloniale o installare sistemi di sorveglianza di massa nelle scuole e nei luoghi di culto”.
Del resto, trasformare i loro paesi e il mondo intero in un immenso campo di “rieducazione” è l’obiettivo dei regimi dispotici, totalitari o dittatoriali.
Sarebbe perciò ragionevole attendersi, oggi, da tutte le religioni e dalle Congregazioni religiose una parola chiara e senza ambiguità, sulla questione della libertà individuale.
È arrivato il tempo, per le chiese e le religioni, di chiarire e finalmente definire senza equivoci, di fronte ai regimi che annullano la dignità umana, il proprio rapporto con la libertà personale e le libertà individuali.
È il tempo, oggi, che le religioni imparino a parlare il linguaggio della libertà, senza aggettivi.
Forse questa è oggi la loro grande responsabilità storica, per il futuro dell’umanità.
Attenzione a non fare errori di cui poi le generazioni future saranno chiamate a pentirsi, a nostro nome. Come è già accaduto, troppe volte, nella storia.