Il tempo dell'interruzione
E se la pandemia fosse anche una lente di ingrandimento sulla nostra vita? In questo caso essa ci consentirebbe di vedere nelle tante “sospensioni” a cui siamo stati costretti, altrettanti appelli a trasformare quelle “sospensioni” in vere e proprie “interruzioni“.
In realtà, a volte, accadono cose che scompaginano i nostri orizzonti di aspettative, in vari modi, nel bene e nel male. In quei momenti, tuttavia, ci viene richiesto non tanto di “riprendere” la normale routine, quanto piuttosto di lasciare che “la prosa” ordinaria del mondo presente, venga “interrotta“, deostruita, ripensata, per poi ripartire.
L’interruzione infatti è quella condizione per cui siamo chiamati a inventare, per così dire, una nuova grammatica, nuove metafore per parlare della vita, nuove direzioni, un nuovo senso di orientamento e un nuovo sistema di posizionamento.
Le interruzioni sono ciò che in alcuni snodi della storia umana hanno avviato la nascita di nuovi paradigmi. nuovi modi di organizzare le esperienze. nuove pratiche e nuovi modelli di sapere, nei diversi ambiti della vita.
L’interruzione oggi si presenta come un appello rivolto alle istituzioni politiche, a quelle economiche, ma anche alle istituzioni culturali, a quelle religiose e a quelle scientifiche, affinché abbiano il coraggio di rompere “lo specchio narcisistico”, dentro il quale esse pongono ancora la propria personale giustificazione (Luca Bagetto).
Presumibilmente, oggi, siamo tutti chiamati dagli eventi a una forma di interruzione: interruzione e ripartenza, interruzione nelle narrazioni, nella prassi, negli approcci alle questioni, negli schemi e nei modelli di pensiero.
Interruzione è infatti la capacità di saltare dal rassicurante schema: “sempre uguale a me stesso“, a quello del “via di qui”. In altre parole, è “l’interruzione della solita solfa“, è il prendere coscienza che è arrivato il momento in cui occorre “smettere di raccontarsela” per lasciare irrompere l’inatteso, la sorpresa.
Interruzione è fare spazio a ciò che sta per venire all’esistenza, invece che all’ossessione per le continuità, dove tutto si compensa e torna uguale o “normale”.
Interruzione significa, perciò, in alcuni momenti decisivi, consentire “l’apertura di un vuoto al centro della scena”, per così dire, l’apertura di una breccia in ogni catena (Luca Bagetto), sia essa la catena del susseguirsi del prevedibile e dell’usato sicuro, oppure la catena di segni, di parole, di gesti o di rappresentazioni, ormai afone ed inespressive.
In certi momenti decisivi della storia, è vitale saper porre le domande giuste, anche cambiando schema; oggi forse stiamo vivendo uno di quei momenti: quei momenti-shock, quegli snodi traumatici, che molte volte nella storia ci hanno mandato a gambe all’aria, lontano da quell’insistenza su certe continuità, che ha guidato, e guida, leadership di varia natura, incollate allo status quo, e le loro basi che le seguono come greggi.
Ma è stato proprio l’impatto imprevisto di quelle esperienze traumatiche, che sembravano dissolvere l’ordine naturale delle cose, che ha costretto talora popoli, gruppi, e singoli a cambiare il tipo di domande, spingendo verso una sorta di reset o di riavvio o di rielaborazione, in vari settori dell’esperienza umana, riavvii di cui l’umanità non si è, in seguito, né rammaricata, né pentita,
Sembra fuori di dubbio che nei contesti di incertezza radicale, la salvezza dell’umanità è dipesa dalla capacità di costruire a partire anche dall’assenza di fondamento. In quei contesti vale, come nota Peter Sloterdijk, un’immagine del filosofo giapponese Nishida Kitarō, secondo cui è necessario trovare la forza per “riuscire a costruire la zattera con la quale si vuole navigare, mentre si rimane in mare aperto”.
Ebbene, senza quel cambiamento di prospettiva, quella interruzione, che accetta di rompere o smontare dispositivi simbolici, stereotipi e pratiche consolidate, che imprigionano la realtà e il pensiero invece di liberarli, ogni battaglia o strategia di sviluppo umano rischia di girare a vuoto.