Libri come terapia: l’Eneide
“andavano nel buio, nella notte solitaria” (Aen., VI, 268)
Cosa perdiamo, in tempi oscuri e incerti, se seppelliamo nell’oblio l’educazione classica?
Oppure, se confiniamo i metodi, gli approcci, i valori (il vero, il bene, il bello) di quell’educazione, nel campo dell’insensato?
Sono. queste, le impellenti domande poste in un recente saggio della rivista The New Yorker, a cura di Emma Green ( www.newyorker.com • March 11, 2024)
Perché l’educazione, e perché quella classica? È l’interrogativo da cui parte il saggio.
Le diverse questioni, che si diramano da quella domanda generano (negli Stati Uniti) vasti dibattiti e conflitti, culturali, ma anche politici, religiosi e identitari.
Sono questioni sicuramente centrali, se si vuole immaginare un tipo di società verso il quale dirigersi. Ma sembrano anche questioni qui da noi assenti, o ridotte a ripetitivi e sterili dibattiti sugli indirizzi didattici.
È proprio l’invito a porci quelle domande, e a cercare risposte nella lezione classica, che ci viene da Andrea Marcolongo, giovane saggista e studiosa di letteratura greca e latina.
Il suo saggio, appassionato, intrigante, ricco di informazioni e documentazione, La lezione di Enea, edito da Laterza, si chiede: cosa abbiamo ancora da imparare dal sapere e dai miti classici, dalla filosofia, dalla letteratura, dallo spirito dei classici?
Ino tale ottica, l’autrice pensa che l’Eneide, in modo peculiare, possa darci alcune risposte adatte alla nostra condizione attuale e al momento storico che viviamo.
Perché non ascoltare allora la “lezione” di Enea? Indagando non solo il “cosa“, ma soprattutto il “come” il personaggio Enea affronta i suoi problemi e i suoi fallimenti? E attraverso quali percorsi?
Insomma, rileggere l’Eneide di Virgilio, oggi? E perché no?
L’autrice pensa che Enea, l’eroe che si mette in cammino senza volerlo, per seguire, per mari e per terre, un percorso non tracciato da lui, rappresenti in un certo modo, la nostra condizione attuale. E quindi ha ancora una lezione da darci, magari senza volerlo.
Come vedremo, la stessa autrice lo evidenzia nel saggio, non è la sola a pensarlo. È stata preceduta in questo da autorevoli maestri.
Certo, sappiamo che, in un certo senso, l’Eneide può essere considerata un’opera incompiuta, sappiamo delle manipolazioni e dei travisamenti del testo, sia antichi che post-costantiniani e medievali.
Sappiamo degli interrogativi degli illuministi. E delle perplessità di filologi e critici contemporanei.
Sappiamo anche di Leopardi, uno dei detrattori di Virgilio (Operette morali e Zibaldone). Nonostante, pare, abbia continuato a studiarlo per tutta la vita. Ma, nota con una certa ironia, Andrea Marcolongo, “a porre fine a questa apparente inimicizia letteraria tra due dei più grandi poeti italiani ci pensò la morte: le spoglie di Giacomo Leopardi riposano infatti poco lontane dalla “tomba di Virgilio”, nello stesso Parco Vergiliano di Piedigrotta a Napoli“. Quasi uno scherzo del “fato“?
Sappiamo anche della indecente manipolazione di Virgilio da parte del fascismo italiano.
Tuttavia, a sostenere l’intento che emerge nel saggio di Andrea Marcolongo, sono stati nei secoli importanti autori. Tra quelli menzionati dall’autrice, mi piace evidenziarne tre.
Prima di tutti, il sommo Dante Alighieri, per il quale Virgilio era “lo mio maestro e ’l mio autore” (Inf., I, 85).
Dante, da cui l’Eneide è stata appresa con “lungo studio e ’l grande amore” (Inf., I, 83). È lui che, attraverso la voce di Stazio dichiara a Virgilio (Purg., XXI, 97-99):
“de l’Eneïda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma“.
Poi, c’è Giorgio Caproni (Il mio Enea, Garzanti), il poeta del Novecento che ha trasformato il ricordo classico di Enea in una presenza viva (Daniele Piccini). La scoperta nel 1948, a Genova, tra le rovine dei bonbardamenti, di una statua di Enea, in fuga da Troia, con il vecchio padre sulla spalle e, a fianco, il figlioletto. lasciè un’impronta decisiva sulla sua vita, di uomo e di poeta.
Giorgio Caproni vede in Enea “la condizione dell’uomo contemporaneo, e della sua solitudine in mezzo allo scandalo del dolore. Eppure, l’eroe non si ferma e non cede, ma continua ad avanzare – se passa Enea, è per rialzarsi e per ricostruire”.
“- Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto”. (Giorgio Caproni, Il passaggio di Enea, vv. 49-64)
Infine, Hermann Broch, romanziere filosofo vissuto nell’ambiente di Musil, Kafka, Rilke, e del Circolo di Vienna, testimone e vittima degli orrori del Novecento.
Il suo La morte di Virgilio, iniziato nelle prigionia, è anche una forma di esame di coscienza, suo e della nostra epoca, attraverso l’esame di coscienza di Vigilio stesso, incentrato sulla narrazione dell’ultima giornata terrena di Virgilio e del suo rapporto conflittuale e drammatico con l’Eneide.
“Soltanto dal perfetto, compiuto significato della more scaturisce l’immenso significato della vita”, scrive Broch in quel denso e complesso libro di oltre cinquecento pagine in cui, “attraverso il dolore di Virgilio, cerca di dare un senso al dolore di un’intera epoca” (Andrea Marcolongo). La sua e la nostra.
Le questioni, gli interrogativi impossibili, i dialoghi alla ricerca di una parola ineffabile, oltre il linguaggio, in quell’ultima giornata terrena di Virgilio, si avviluppavano intprno al senso dell’Eneide, al valore della letteratura, a una sorta di equazione tra verità e impotenza.
Quelle domande, che si poneva anche Hannah Arendt (in Truth and Politics), quando si chiedeva se l’essenza della verità fosse di essere impotente, e se l’essenza del potere fosse di essere ingannevole, quelle domande sulla relazione tra la realtà e la verità; o infine. il chiedersi se non sia vero che il reale può essere concepito solo confrontandolo con il possibile, sembrano le domande che ci attraversano e attendono risposte ancora oggi.
Ebbene, se rileggiamo l’Eneide, anche con i gli occhi e lo spirito di questi maestri, forse scopriremo che una parte importante della eredità dell’Eneide, come scrive Andrea Maecolongo, consiste nel prporci un approccio, uno sguardo particolare che tenta di orientarsi di fronte ai grandi bivi cui l’umanità si è imbattuta nel corso della sua storia recente – cioè un modo di guardare in faccia il caos, e di ricomporlo come si può. Per evitare che “il nulla riempia il vuoto e divenga il tutto“(Hermann Broch).
“Se passa Enea, è per rialzarsi e per ricostruire“.
Enea potrebbe aiutarci a capire che da tutto questo “sbattimento“, che è spesso il vivere, non ci si può tirare fuori mai. Bisogna resistere invece, e ancora. Fino alla fine.
Un commento
Giuliana Cudicio
Il dramma del nostro tempo è, io penso, che Enea non cerca scampo alla tragedia che incombe portando sulle spalle il vecchio padre (il passato da salvare a futura memoria) ; regge quasi sempre sulle braccia il corpicino di un figlio lacerato o morto (un futuro terribilmente precario o impossibile da programmare)…