Machiavelli e la sfida dell’Ingovernabile
Rileggere Machiavelli? Sì, perché sembra che abbia qualcosa da dire sulla politica e il potere al tempo dell’automazione, e della “quarta rivoluzione” industriale, incentrata sulla crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico.
Machiavelli può ancora parlare a noi, nota Roberto Esposito (Doppiozero,02/2024) nella misura in cui ci consente di misurare le contraddizioni del nostro tempo attraverso una parola che viene da lontano.
Quando l’impotenza politica sembra abitare gli animi dei nostri contemporanei, sul cui immaginario, oltre alla coscienza di una perdita del sapere e dei mezzi d’azione, incombe – sostiene Bernard Stiegler – l’imminenza di una fine della possibilità stessa di conoscere tutto (Antropocene), può essere utile rileggere Machiavelli.
Del resto, Machiavelli pensa e opera in un contesto in cui la compresenza e il conlitto di tempi diversi all’interno dello stesso tempo, trasformano anche il suo in un tempo che possiamo considerare complesso, non solo nel senso di “complicato” o “plurale“, ma come teatro di simultanei, profondi e molteplici conflitti e mutamenti..
Rileggere Machiavelli quindi? Perché no? Non è un caso se sono state, e sono, molteplici le letture e le interpretazioni di Machiavelli, che, a partire da Spinoza, Cartesio, fino a Hegel, Heidegger o Jankélévitch, si sono susseguite e scontrate fino a oggi.
Ripensare la Politica con Machiavelli? Perché no?
È ciò che ci invita a fare Rocco Ronchi nell’illuminante volumetto L’ingovernabile. Due lezioni sulla politica, Il Melangolo, scritto con Bernard Stiegler.
Purché si sia disposti a rinunciare a una opinione diffusa: quella di un Machiavelli convinto che l’arte della politica richieda soprattutto un’analisi lucida delle situazioni e una presa di decisione sempre razionale.
In realtà, già per Spinoza, il quadro teorico che può rendere meglio pensabile la politica nella prospettiva machiavelliana dovrebbe essere quello della temporalità plurale e della contingenza. In questa ottica, perciò, andrebbe recuperato un concetto machiavelliano che apparentemente sembrerebbe meno compatibile con la sua ontologia, dominata dalla necessità, cioè il concetto di occasione. Sì, soprattutto, osservava Machiavelli, “ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d’ogni umana coniettura”
Se seguiamo le argomentazioni di Rocco Ronchi, sembra infatti che, contro l’idea di Stato demiuurgo, Machiavelli rimandi a una diversa “virtù” del Principe, il quale, senza un cinquanta per cento di fortuna non può agire: “iudico, scrive Machiavelli, poter essere vero che la fortuna sia àrbitre della metà delle azioni“. E che forse “lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi“.
È per questo che occorrerebbe uscire anche – nota Ronchi – da una prospettiva che è stata per lungo tempo quella di Cartesio, e che ci ha spinti a pensarci “come padroni e possessori della natura”. Mentre, al contrario, la natura è il mondo dell’imprevedibile, dell’emergenza casuale che prende forma, rendendo a volte inutile o vana l’iniziativa umana.
In effetti, scrive Rocco Ronchi, nel suo contributo (La virtù politica), il richiamo che Machiavelli fa a Tyche sta a significare “l’indisponibilità di principio del fondamento. [Per dire che] la Potenza che il Principe intende maneggiare è una materia-flusso [una materia-soggetto] che, come un pilota di una nave nella tempesta, egli deve seguire “kata dynamin” [Platone], cioè per quanto la fortuna lo asseconda, per quanto è dato, come traduce Ronchi l’espressione platonica.
Insomma è sempre la Potenza (la materia-soggetto) a condurre le danze. Il Principe ‘segue’ [se è in grado di farlo] come fanno tutti i bravi danzatori”.
Ecco perché governare è un mestiere “impossibile e necessario“: anche se l’impossibile che viene attribuito ad esso non esonera dal praticarlo.
Solo che, come la navigazione in mare, si muove sempre tra l’ingovernabile e il necessario!
Il che significa – aggiunge Rocco Ronchi – che bisognerebbe anche uscire dalla diffusa vulgata di un Machiavelli fondatore della “scienza politica” moderna. Uscire quindi non solo dall’’idea che la politica sia la scienza del possibile, ma anche dall’idea che la politica sia una scienza.
La “grande politica” fatta di Città possibili, utopiche, razionali, dovrebbe far strada a un’altro tipo di virtù politica, quella della “politica minore“, quella delle arti minori, dei mestieri o professioni, la cui virtù è quella cibernetica, come quella del pilota della nave (che deve barcamenarsi in un mare in tempesta), o quella del macellaio, che è costretto a seguire le venature della carne per operare (Platone: la techne del dialettico = l’arte del macellaio)) o quella del sarto che deve accordarsi con le resistenze del tessuto (la sartoria è la metafora associata da Henri Bergson alla virtù politica).
La politica quindi ha la “dignità” di un’arte minore, Infatti c’è arte nel senso minore del termine lì dove la materia è soggetto, non oggetto, lì dove è la materia a dettare le forme che deve prendere l’opera, una volta che si è convertito il vincolo in occasione.
L’uomo non è artefice del proprio destino ma condivide il suo operare con la materia- soggetto. Non adeguarsi alle cose, ma neppure pensare di creare dal nulla.
Ecco, secondo Rocco Ronchi. Il Principe, più che un’opera di scienza della politica, dovrebbe essere consuderato “un trattato sulla virtù politica come virtù cibernetica“. Una politica minore, insomma, che produce il proprio sentiero camminandovi sopra.
Alla fine,la “virtù politica” lungi dall’essere l’adesione a una metafisica legge astratta o l’estrazione logica di una costante (ciò che scioccamente si loda nella coerenza del politico, nota Rocco Ronchi), può solo mettere “le stesse variabili in stato di variazione continua”.
Un commento
Marco Pelliccione
Ho la fortuna di averti tra i miei contatti Facebook, il mio, per questa volta è solo un saluto.
Con stima
Marco Dalissimo