Regole per la fine del mondo
Forse è vero, oggi stiamo vivendo tempi apocalittici.
È difficile infatti stare dietro a chi minaccia la catastrofe e a chi teme o annuncia la prossima fine del mondo. L’esito, alla fine, è solo quello di innescare e diffondere (come forse è nele intenzioni di alcuni) angoscia e paura.
Certo, la prospettiva apocalittica è anche il frutto di una “dissonanza cognitiva”, prodotta dal non avverarsi o dal tradimento di speranze, profezie e ideologie, che lascia disorientati, soli ed amareggiati un gran numero di persone.
Forse non è un caso se il misterioso e dibattuto tema del katechon è stato recentemente riproposto da diversi filosofi, teologi e sociologi della politica (Francesca Monateri, Katechon, Boringhieri).
Anche il “tentativo di trovare un fondamento stabile in un mondo che sembra distinguersi solamente per il suo tratto caotico, esuberante e sfuggente” (Carl Schmitt), pare destinato al fallimento.
Si ha l’impressione che le strade della razionalità siano diventate poco praticabili di fronte al macigno di percezione cupa che oggi sembra prevalere, in un tempo in cui “neppure con l’evidenza dei fatti si indeboliscono le credenze [o le fake news] perché i fatti necessitano di interpretazione e l’interpretazione è al servizio delle credenze e non della realtà” (Nicoletta Cavazza, in Festinger, Riecken, Schachte, Quando la profezia non si avvera. Il Mulino).
È vero anche che tutto è già accaduto, in altre epoche.
E, dunque, abbiamo davvero bisogno di regole o esercizi che ci aiutino a prepararci o ad affrontare la fine della storia?
È ciò che pensano Andrea Mosca e Emiliano Rubens Urciuoli, che con Gli esrcizi di Paolo di Tarso (Edizioni ETS), invitano a scorgere, con un’ampia documentazione, nel messaggio di Paolo una proposta di terapia per una condizione in cui la catastrofe sembra alle porte, e mentre la prognosi è riservata e non può essere sciolta. Essi pensano di ricavare dalle lettere di Paolo di Tarso alcune massime che, trasformate in formule di antropotecnica, da ripetere a se stessi, potrebbero addestrarci a vivere alla fine del mondo. Pure se, per Paolo, la fine del nondo, attesa, assumeva una valenza diversa da quella che opprime l’umanità attuale.
Si sa, infatti, che l’apocalittica che caratterizzava molti, nelle primissime comunità di seguaci di Gesù di Nazareth, come Paolo, aveva un segno diverso: mentre oggi “fine del mondo” si riferisce alla distruzione di tutto, al tempo di Paolo la fine del mondo evocava l’attesa dell’avvento di un mondo ricostruito, il regno di Dio.
Tuttavia proprio questa circostanza consentiva a Paolo, in un contesto culturale confuso e potenzialmente conflittuale, di immaginare istruzioni e massime per cambiare la propria vita e continuare a vivere in contesti eccezionali, alla fine del mondo, quando si fa strada una qualche certezza che “non c’è più tempo“.
L’attuale condizione del mondo e della nostra storia, ci dice che forse non siamo capaci di affrontare tante speranze e aspettative deluse. Troppe promesse tradite. E troppi orizzonti annebbiati.
Che succede allora agli umani quando le profezie non si avverano?, si chedevano, già molti anni fa, Festinger, Riecken e Schachte (Quando la profezia non si avvera, Il Mulino).
Ed è ciò che si chiedono anche Andrea Mosca e Emiliano Rubens Urciuoli, aggiungendo però la domanda: come riuscire a vivere in un contesto in cui la prova dei fatti sembra smentire ripetutamente aspettative e prorgetti, ideologie e credenze diverse?
Che pensare, e che fare quando sembra che tutto corra verso la fine?
Le massime-istruzioni che Mosca e Rubens Urciuoli pensano di ricavare dalle lettere (ed è importante sottolineare, come fanno gli autori, che si tratta di lettere non di trattati) di Paolo di Tarso sono sette. Tutte molto illuminanti e intriganti, tutte potenziali formule di antropotecnica, utili per cambiare la propria vita, in contesti in cui “non c’è più tempo“.
Certamente, per sottolineare solo qualcuna di quelle formule o regole, i contesti eccezionali, quelli in cui non c’è più tempo, ci costringono riscoprire ciò che ha salvato molte volte nel passato gli esseri umani nel loro cammino storico: in primo luogo, disabituarsi a dubitare dell’assurdo, e sperare contro ogni speranza.
E, quindi, sul piano delle pratiche, può servire un comportamento “controintuitivo“: se il tempo corre, tu non inseguirlo, ma stai fermo. Continia a fare quello che stai facendo. Vedi se riesci a vivere in una situazione eccezionale senza pensare di dover fare qualcosa di speciale, anche se, interiormente, tutto in te è in subbuglio e tutto cambia profondamente.
Ciò comporta anche un importante e fondamentale elemento epistemologico: la sospensione della percezione e della valutazione ordinarie delle cose.
Questo approccio potrebbe rappresentare anche la strategia per affrontare il disagio prodotto dall’esperienza della dissonanza cognitiva che sconvolge noi umani, soprattutto in certi momenti storici cruciali, come quello che viviamo oggi.
Auto-ddestrarsi a un sistematico ribaltamento dei valori – l’alto in basso e il basso in alto – è difficile e richiede molto esercizio, ma è una prospettiva forse necessaria per affrontare le logiche contro-intuitive e contro-culturali di fronte alle quali ci si trova, in tempi eccezionali.
L’alto in basso e il basso in alto. È come dire anche: cerca, in quei momenti, di non montarti la testa.
Soprattutto quando la fine della storia è percepita vicina, e troppa gente si atteggia a messia o salvatore.
Un commento
Luigi Vassallo
Un mondo in tempesta e noi ci siamo dentro. Impareremo a nuotare?