Oltre l'antropocentrismo
Se c’è una lezione da imparare oggi, è che viviamo all’interno di un cambiamento di paradigmi.
Abbiamo molti segnali di questo processo, del resto avviatosi già da qualche tempo, ma che la pandemia, proprio perché “pandemia”, sta rendendo più profondo, visibile e accelerato. Anche se non siamo ancora in grado di misurare l’impatto di questo processo sui macro-ambiti più diversi della nostra esistenza.
Non sappiamo, per esempio, quale impatto annunciano sintomi come i terremoti e le ristrutturazioni in corso nel campo dell’economia, o i mutamenti e riorganizzazioni degli equilibri e dei rapporti di forza sul piano geopolitico.
Non conosciamo quale impatto avrà ciò che sta accadendo nel campo della scienza, dove sembra entrata in crisi quella tendenza neoliberista, che, come ha scritto Pietro Barbetta, ha reso spesso la scienza un’industria produttrice di “evidenze”, confondendo la funzione ipotetica della ricerca scientifica con la produzione di evidenze tecniche immediate. Oggi, sembra che questo virus pandemico abbia costretto “le scienze…a tornare a formulare [insieme] ipotesi. Il virus ha smascherato i sistemi di autorevolezza interni alla scienza, ha sconvolto le evidenze”.
Infine, non conosciamo il tipo di impatto che questo processo avrà sulle grandi tradizioni religiose. Anche qui abbiamo dei fenomeni-sintomi significativi come le chiese chiuse o i riti interrotti. Ma, soprattutto, l’immagine, iconica, del Papa, che cammina, solo, sotto la pioggia, in una piazza San Pietro deserta, sulla quale cala il buio della sera.
Non possiamo indovinare cosa accadrà nelle nostre menti e nelle nostre vite. Non sappiamo cosa saremo quando questi processi di cambiamento si saranno delineati più chiaramente.
Nella storia umana non si è mai tornati al punto di partenza, in nessun ambito, anche quando tutto sembrava procedere “normalmente”. Figuriamoci dopo momenti e processi traumatici come quelli che l’umanità ha vissuto in alcuni periodi, come il nostro o anche peggiori.
Sappiamo solo che saremo diversi, migliori o peggiori, non possiamo prevederlo.
Ma, come è accaduto talora in periodi cruciali della storia, abbiamo la possibilità di accettare di essere di fronte a nuove questioni, nuove domande, nuovi dilemmi. In ogni ambito. Possiamo quindi prendere atto che “i problemi non possono essere risolti ricorrendo allo stesso tipo di pensiero che li ha creati”(Einstein).
Infatti, possiamo contare solo sulla pazienza della ricerca comune e ininterrotta, ma non sulla chiarezza dell’orizzonte, né sulla sicurezza della strada da percorrere. Nessuna via è mai fine a se stessa. Aveva ragione Marcel Granet, quando affermava: “Il metodo? È il cammino dopo che lo si è percorso”.
Ai nostri giorni, credo che siamo in una situazione del genere.
Sappiamo che servirebbe un nuovo “modo di guardare”, ma come? e dove?
Questa pandemia ci sta mettendo di fronte un handicap radicale delle nostra modernità: il nostro antropocentrismo estremo.
La visione antropocentrica dell’uomo “microcosmo”, la visione centrata sull’uomo, sul soggetto, sull’io, fino a diventare “egolatrica”, è forse uno dei paradigmi che andrebbero ripensati.
Il fatto è che l’uomo non c’è senza il cosmo. E qualunque progetto che non guardi nella prospettiva del “tutto” cosmico può diventare distruttivo per la stessa umanità.
Ci serve forse una rilettura e reinterpretazione del paradigma dell’uomo microcosmo, che noi ritroviamo all’inizio dell’età moderna, ma che deriva dalla molto più antica speculazione indoiranica, investigata in approfondite e fondamentali ricerche, già all’inizio del Novecento, dal filosofo Hans Leisegang.
Microcosmo: lo abbiamo letto come se tutto il mondo si dovesse specchiare in noi, nell’uomo. Secondo il neoplatonico Niccolò Cusano, l’individuo umano, pur essendo una piccola parte del mondo, è una totalità nella quale tutto l’universo risulta contratto.
Ma l’idea originaria non era proprio questa. È piuttosto il contrario: è l’uomo che si deve specchiare nel cosmo, se vuole ritrovare se stesso e capirsi davvero.
La speculazione originaria sul macrocosmo-microcosmo orientava verso un decentramento-trascendenza della centralità umana nel cosmo.
La realtà dell’uomo può essere compresa solo se, di fronte al cosmo, egli si vede in esso. Quando cominceremo a pensare in termini di “mondo” e di cosmo? Come scriveva Ulrich Beck, il compito principale, d’ora in poi, dovrebbe essere la preoccupazione per il tutto. Non si tratta di un’opzione, ma della ineludibile condizione umana attuale.
Posso sapere chi è l’uomo e chi sono io, solo se, guardando intorno in qualunque direzione, io riesco a specchiarmi, e a dire a me stesso: questo sei tu!
Questo che vedi sei tu!
Questa natura sei tu, questo sole, questa luna e queste stelle, sei tu; queste albe, questi tramonti e queste notti, sei tu; queste montagne, queste valli e questi fiumi, sei tu; questi animali, quelle aquile e questi insetti, sei tu; queste nazioni, questi popoli e queste civiltà, sei tu; queste città, questi villaggi e quei volti, sei tu; quelle parole, quei colori, quei suoni, sei tu; queste speranze, questi sogni, questi dolori e queste miserie, sei ancora tu!
Non è necessario guardarsi allo specchio, o guardarsi dentro per ritrovarsi come esseri umani. Piuttosto si tratta di guardare intorno, fin dove è possibile spingere lo sguardo e oltre, e riuscire a dirsi: ecco, tu sei questo!