"Danzare sull’orlo degli abissi…"

Mi è venuta in mente questa frase di Nietzsche dopo aver visto l’ultimo film di Nanni Moretti Habemus papam”. Difatti l’ho letto – nonostante ciò che può apparire a una lettura superficiale – proprio come un invito alla danza e al gioco, una riaffermazione di speranza e di possibilità di immaginazione e di invenzione. E in realtà di questi tempi – e non soltanto nella nostra noiosa e “provinciale” Italia – solo Dio sa quanto ci sarebbe bisogno sia di speranza che di immaginazione, e quanto ci sarebbero necessari la capacità di danzare e di giocare, come solo i bimbi e gli amanti sanno fare! In effetti “danzare sugli abissi” è possibile – come è stato possibile nella storia umana, altrimenti non saremmo qui a parlarne! – solo a chi si sente immensamente amato come un bimbo, o ama immensamente come un “amante” vero!
Beh io credo che, in questo film, Moretti abbia rappresentato più che una denuncia senza appello o una semplice satira, la necessità e il bisogno di un grande amore, una grande speranza e una grande voglia di volare!
Tutto questo emerge, senz’altro, in quello che il film dice sul cristianesimo e sulla Chiesa. A proposito della quale è vero che viene messa in evidenza la “pesantezza” delle strutture, che sembrano intralciarne il cammino, o la paura della libertà e il conformismo che la fanno sentire come una cittadella assediata. Tuttavia credo che, nel regista e negli sceneggiatori, abbia giocato pure una segreta speranza e una sorta di “nostalgia” di “quello che potrebbe essere”. Per esempio, i cardinali che, come tanti, esprimono la voglia di saltare e giocare. Il più vecchio tra di loro – più vecchio forse anche anagraficamente come il “papa” Michel Piccoli – che immagina di dover, più che dire agli altri cosa fare, essere capace di non aver paura, di capire, di aver compassione e di tenere per mano i suoi compagni di cammino in questo mondo, a cominciare da quelli senza voce e senza diritti.
Ma non c’è solo questo nel film. Ci sono almeno altri due aspetti da sottolineare, che arricchiscono e completano, a mio parere, una “filosofia della vita” che, secondo me, è la “lezione” (se si può parlare di “lezione” per un‘opera artistica) di questo film.
Il primo è l’elogio della “leggerezza”, del gioco e della danza, quasi della voglia di “volare” senza paure, frutto della fiducia, nonostante le difficoltà e l’apparente mancanza di vie d’uscita da situazioni impreviste, in cui  spesso ci si viene a trovare.
L’altro aspetto, che ha un suo spazio rilevante nel film, è un appassionato omaggio al “teatro”.
Qui forse ci sarà anche l’eco della condizione difficile in cui la nostra “stupida” classe di governo sta lasciando un patrimonio senza prezzo della nostra tradizione italiana. Ma senz’altro c’è molto di più. C’è anche una visione della vita. Rappresentata in una visione del teatro. Che appare come  una modalità attraverso cui si esprime il bisogno inconsapevole di “fare esperienza” dell’invenzione della propria vita. Come in un “laboratorio”, in cui attori e spettatori hanno – insieme e in uno spazio “altro”– l’occasione di “immaginare” e provare a “costruire” esistenze alternative. Hanno la possibilità di condurre “esercizi” su se stessi, scambiandosi parole e sguardi.
Desiderando di vivere l’avventura della scoperta di un’altra dimensione di sé stessi e della propria vita. 

Amo la storia delle idee, la filosofia e la musica. Mi interessano i linguaggi, la comunicazione, i libri.

4 commenti

  • Anonimo

    Danzare sull’orlo degli abissi…come ci insegna il secondo Wittgenstein, se calato in un diverso contesto può perdere di significato o acquistarne uno nuovo, magari molto più intenso; o forse è lo stesso che Nietzsche in senso lato voleva esprimere, se ad esempio con fare maccheronico riconoscessimo lo smascheramento delle forme ipocrite in qualcosa di concreto! Noto come venga spesso osannato il senso di speranza che taluni fanno emergere, non voglio essere cinico, ma credo che sia qualcosa di fin troppo adulatorio nei confronti della tendenza umana di affidarsi a delle illusioni. Così come l’illusione della spensieratezza, della leggerezza, sono cose che, secondo me l’uomo non potrà mai realisticamente raggiungere, se si pensa alla partita di scacchi che ciascun uomo gioca ogni qual volta egli compia un azione: in cui bada bene dal ledere o meno qualcuno, e nel farlo, a chi o come. Forse l’unica cosa che spiegherebbe tutto quanto è elogiato qui sopra, è proprio l’amore per il teatro, o per lo meno, l’amore che l’uomo ha nelle sue capacità di sfuggire alla propria vita reinventandone una diversa, così che possa soddisfare quell’ illusione, che, se ci si affida all’ agire del mondo, non sarà mai e poi mai apprezzabile.

  • Anonimo

    La tua riflessione a partire dal film di Moretti mi incuriosisce e mi fa venire volgia di vedere il film. Ma, a prescindere dal film in questione, è la tua rilettura dell'infantile capacità di giocare che mi fa desiderare di non diventare mai così completamente adulto (e serio) da rinnegare il bambino che sono stato e che, ancora ogni tanto, sento di essere. Sogni (ingenui e illusori, forse, come scrive gio5.hp7 nel suo commento)per sentirsi ancora umano.

  • Anonimo

    “ Restituite il Sacro…rilasciate il Papa “Rispondendo ad una lettera, Umberto Galimberti, scrive: “Il Sacro (il separato, l’ignoto) è precedente all’avvento di Dio.Dopo, la Chiesa si è assunto il compito di difendere l’Umanità dal Sacro, dal terrorizzante “Ignoto”.Nei millenni, la Chiesa ha “raffinato”, attraverso il “ Rito”, l’imprigionamento del Sacro; fino a rinchiuderlo, “metaforicamente” nella Citta’ del Vaticano; isolandolo insieme al suo custode supremo : il Papa.Ma, facendo ciò, non si è resa conto d’aver lasciato, “comunque” solo l’Uomo, perché la sua essenza non può essere scissa; essa è fatta di: Vita e Morte, Gioia e Paura (paura dell’ignoto, del separato… del Sacro).L’Uomo ha bisogno, per apprezzare e godere la Vita, dell’incombenza della Morte.Allora, fate uscire il Sacro dal Vaticano e restituitelo all’Uomo!Fate “confondere” il Papa nella folla; ricomponete la dualità dell’Uomo: Vita – Morte.Quest’ultimo messaggio, penso sia il più bello, che voglia trasmettere, l’ultimo film di Nanni Moretti : “Habemus Papam”.L’ habemus, noi in Vaticano, ve lo restituiamo, facendolo “sciogliere” nell’intera Umanità, riconciliandola con l’Universo !Mario Rosario Celotto

  • Anonimo

    Condivido questa interpretazione del film di Moretti, e, in una sorta di dialogo ermeneutico, posto anche qui le riflessioni che ho scritto sul medesimo film. Ombre della Lanterna MagicaMi è piaciuto Habemus Papam di Nanni Moretti. È una metafora delle prigioni in cui le vite umane si lasciano rinchiudere. La rappresentazione è tuttavia segnata da una regia intrisa di “pietas”, perciò si esce dalla sala come sollevati e pervasi da un sentimento di pietosa accoglienza verso se stessi e verso gli altri. Mi sembra che il film ci metta davanti a due strade: l'una conduce alla prigione dei ruoli, professionali o istituzionali, nella quale si cerca scampo all'angoscia nelle droghe (siano esse tranquillanti, dolci succulenti o stordenti giochi solitari), e nelle risposte rassicuranti del linguaggio – “formula magica”, semplificante e risolutivo, della psicanalisi, come lo stesso Moretti, nella parte del dottore, suggerisce con la sua voce, quasi fuori campo. L'altra strada, aperta all'avventura della vita, si snoda imprevedibile nel teatro del mondo. La trama del film è poeticamente intertestuale. Il mio vissuto ne ha colto due citazioni. La prima è implicita nella “peripezia” della trama: la fuga per le strade di Roma del papa, sul cui sguardo mite e inquieto insiste la macchina da presa, mi ha ricordato quella della principessa ansiosa di vita (Audrey Hepburn) in “Vacanze romane”. Ma la “favola” diretta da William Wyler si conclude malinconicamente, perché la protagonista, dopo un tuffo inebriante nel brulichio della vita, torna alla responsabilità del suo ruolo, rinunciando all'amore. I passi di Gregory Peck, che rimbombano solitari sul pavimento di marmo, scandiscono l'addio e la distanza incolmabile tra il Palazzo e la vita. La seconda, esplicita ed emblematica, consiste nella stessa “peripezia” della vita – teatro, e rievoca “Il Gabbiano”, il dramma metateatrale in cui Anton Čechov rappresentò le sconfitte causate agli uomini dalle “passioni tristi”. Ma le due citazioni nel film di Moretti sono rovesciate nel senso e nell'epilogo. Infatti, il protagonista non torna nella dorata prigione, si libera dell'angoscia e si avventura sorridente nei “giochi” della vita. Infine, vorrei soffermarmi su quella sequenza allusiva, lievemente misteriosa, che mostra “l'ombra” di un “Papa che non c'è” scivolare al di là di una tenda ondeggiante alla finestra. Migliaia di occhi sono appuntati a quell' “ombra” illusoria. Per me è questo il momento poetico del film: l'evocazione ambiguamente affascinante del gioco d'ombre della “lanterna magica”, e del “vano” oltre le maschere dei ruoli e della personalità .

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